lunedì 4 febbraio 2008

Visitò in sogno una famiglia etiopica, di tale ributtante miseria, fisica e culturale, da svegliarsi e rimanerne disgustato per almeno mezzora.

Con grande sorpresa constatò che la liturgia del giorno tematizzava in tutte e tre le pericopi domenicali il primato dei poveri.

 

Beati i poveri, che, pur perseguendo la giustizia, rifuggono dalla violenza e trasformano frattanto la loro miseria in umanità altruismo canto.

 

L’eventuale violenza dei poveri ricade sui loro sfruttatori.

 

Ho uno scolaro italiano, poverissimo ma felice. Che occhi. I suoi genitori e i suoi nonni lo inondano di affetto e di musica. Ballano sempre, anche i vecchi nonni. Gli confida la dolcissima maestrina.

 

Quella casa poverissima, piena solo di vecchi dischi, con un vecchio grammofono, è il centro del mondo.

Hanno ragione quegli occhi.

 

Beati pauperes.

 

Le ispirazioni sulla povertà sono esondate dal sogno etiopico, dal suo disgusto assoluto.

 

Prima del crollo della DC, Carlo Ferrari disse chiaramente ai suoi amici e ai suoi preti che quel partito era ormai corrotto e insanabile.

 

Quando seppe che sarebbe diventato vescovo di Monopoli, esclamò: Monopoli?! Ne ignorava l’esistenza geografica. Pensava fosse solo il classico notorio gioco.

 

Riteneva che i vescovi dovessero fondere le loro forze e guadagnare in qualità. Favorì la fusione fra il seminario minore di Monopoli e quello di Conversano, inserì poi i promossi nel seminario maggiore di Taranto.

 

Quando il bisonte, tronfio e altero, irrompe in redazione, l’aria si carica di odio. Gli confidò il giornalista della Gazzetta, alludendo all’arrivato-arrivista-arcivescovo. Il cui fisico barocco-leccese è noto a tutti i ranch dell’episcopico sud.

 

Maledetti i ricchi, che maledicono i poveri.

 

Carlo Ferrari inserì le vocazioni adulte della sua diocesi, fra cui il futuro profeta, nel seminario teologico di Torino, sito a Rivoli.

Era allergico alla formazione enfatica e baroccheggiante del seminario teologico di Molfetta, nido di clericalismo.

 

Senza Ferrari non ci sarebbe stato il più grande profeta della storia del cristianesimo cattolico.

 

Ferrari, sotto la sua asciuttezza e sobrietà piemontese, era un poeta. Da quella polla sgorgò il carnevale dei bambini, fiore all’occhiello della sua pastorale monopolitana.

La cittadinanza lo sentì padre, i bambini madre.

 

Al suo perplesso amico benedettino, interpellato per l’episcopato, disse: devi ascoltare solo Dio e perseguire solo ciò che senti tuo carisma.

 

All’anziano buon vicario, dal cuore d’oro, disse: questi giovani guardano al Vangelo, per questo ci stupiscono.

In merito alle prime contestazioni giovanili nel seminario teologico di Molfetta.

 

Seguiva in modo particolare i giovani appena ordinati preti, attento alla loro valenza interiore. Inserì il futuro profeta, fresco di ordinazione, in seminario prima come assistente poi come padre spirituale: voleva preservarlo dal trantran faccendiero e ritualistico della parrocchia. Ne voleva la maturazione spirituale, prima dell’ingresso nel fare pastorale.

Il giovane prete fu richiamato dal Rettore, contiguo all’Opus Dei, perché le sue meditazioni ai ragazzi vertevano sul Vangelo. Vertevano non per mentalità (che sopraggiunse dopo) ma per istinto. Come per istinto la centratura della sua predicazione su Gesù.

 

Il futuro profeta preparò un ragazzo alla sua prima Comunione leggendogli e commentando le pagine più belle del Vangelo. Quel ragazzo per tutta la sua vita fu segnato dall’incontro con Gesù.

 

Il futuro vaticanista, allora seminarista, voleva passare dalla diocesi di Monopoli alla diocesi di Bari perché innamorato dello stile principesco di mons.Nicodemo e delle sue posate d’argento.

Il futuro cultore della Sindone alla fine decise per Roma, madre dei crocifissi, reggia dei crocifissori. Allignò, come il giusto biblico, fra Tevere e Oltretevere. Papeggiò sempre, morendone.

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