HO VISSUTO SETTE VITE. NON HO PAURA DI MORIRE

intervista ad Hans Küng, a cura di Arno Luik.

Signor Küng, ho una zia novantottenne che ha un grosso problema: lei è certa di andare in paradiso e di trovarvi là marito, figli e conoscenti, ma si chiede in che stato siano: giovani, vecchi, malati, sani?

Capisco che sua zia abbia tale preoccupazione. Non si sa che cosa ci si può aspettare al di là della porta della morte, personalmente non posso e non voglio immaginare come sia il paradiso. Ogni persona ama immaginare, ma deve sapere che sono solo sue immagini. Viviamo in un’epoca successiva a Copernico e a Darwin – e quindi non possiamo più immaginarci il paradiso come hanno fatto ad esempio Michelangelo o i pittori del Medio Evo o del Barocco. Io non credo a queste semplicistiche rappresentazioni del paradiso, secondo le quali staremmo seduti su una seggiolina d’oro a cantare “alleluia”.

Papa Benedetto crede sicuramente che in qualche modo nell’aldilà si sta seduti tutt’intorno. Non molto tempo fa diceva che il suo predecessore, Giovanni Paolo II, era affacciato al balcone della casa del Signore a guardarci: allora c’è un morto che guarda giù.

Questa è una rappresentazione sorprendentemente ingenua. Il Papa si esprime a volte in maniera premoderna e popolare – un’eredità della sua fede bavarese contadina. Naturalmente anche lui sa che il paradiso non è una dimora al di sopra delle nuvole con finestre dal cielo. I cristiani illuminati capiscono che nell’aldilà non viene risvegliata alcuna salma, ma che – come diciamo nella liturgia – avviene una totale trasformazione del modo di essere. Sono curioso di scoprire come sarà nell’aldilà.

Signor Küng, della sua vita nell’aldiqua lei è sicuramente deluso.

Perché mai?

Ha scritto più di 60 libri, più di 30 000 pagine e…

Lavoro molto volentieri. In tutta modestia, credo di aver prodotto qualcosa che rende il cristianesimo, la religione, l’etica nuovamente comprensibili all’uomo moderno.

Nonostante il suo ardore…

Non sono stato e non sono un fanatico, né un santo, scrivo per le persone che sono in ricerca.

Malgrado il suo impegno, dal 1989 le due maggiori Chiese [in Germania] hanno perso più di sette milioni di fedeli, e alla preghiera del mercoledì a Roma partecipano annualmente due milioni e mezzo di persone in meno rispetto ad alcuni anni fa con Giovanni Paolo II. Lei si è consumato le dita a scrivere, però inutilmente.

No, ho avuto successo! Un numero incalcolabile di persone mi scrive – quotidianamente -, che io sono stato per loro un aiuto. Io sono diventato, involontariamente, un portavoce della leale opposizione a sua santità. Un portavoce che viene preso sul serio – anche dallo stesso papa. Sono presente dentro e fuori la Chiesa. Senza di me molti avrebbero abbandonato la Chiesa, molti mi dicono: “Finché resiste lei dentro la Chiesa, resisto anch’io”.

Cionondimeno, la sua battaglia l’ha persa. Il suo antagonista Ratzinger…

Non è il mio antagonista, e la mia professione non è critico del papa. Sono un riformatore, non un sovversivo. E non sopporto di essere sempre chiamato ribelle della Chiesa o…

Il suo antagonista è diventato papa, entra nella storia. Lei sarà solo una nota a piè di pagina.

È piuttosto sfacciato quello che sta dicendo, lei non può vedere nel futuro, lei…

Ma sarà così!

Crede? Come una persona entri nella storia, lo decide solo la storia stessa. Non è importante la funzione, e neanche il potere. Un esempio: Tommaso d’Aquino – non voglio mettermi alla sua altezza – aveva volontariamente rinunciato a qualsiasi incarico importante nella Chiesa. Papa Innocenzo III, suo coltissimo contemporaneo, fu il più potente di tutti i papi – lei conosce Innocenzo III? No. Questo papa, un tempo potentissimo, oggi è una nota a piè di pagina, comunque ancora importante per gli storici. Però Tommaso d’Aquino viene costantemente citato ancor oggi come un’autorità. No, non mi sento un perdente.

È chiaro che lei deve dire e la deve vedere così.

Certo che la vedo così! Ma c’è un’altra cosa che mi rattrista nella vita: che Joseph Ratzinger, che nel 1966 ho chiamato all’università di Tubinga, non abbia proseguito sulla stessa via della riforma come ho fatto io. Allora non avremmo probabilmente oggi questa spaccatura della Chiesa cattolica in Chiesa alta e Chiesa bassa. Io rappresento la Chiesa bassa, lui tiene alla Chiesa alta. Tutto il mio lavoro era indirizzato a che la Chiesa alta cambiasse. E in questo, e qui ha ragione lei, io ho avuto solo un successo limitato. Ma: chi ha vinto una battaglia è ancora lontano dall’aver vinto la guerra. Io credo che l’attuale politica del Vaticano sarà un fiasco. Il tentativo di risospingerla indietro nel Medio Evo la svuota. Non si possono riportare in vita i vecchi tempi!

Ma mi dica un po’, perché 200 anni dopo l’Illuminismo si dovrebbe ancora credere in Dio?

Sì, proprio come persona illuminata le dico: ci sono mille motivi per non credere.

In questo ha ragione.

Di fronte alla miseria nel mondo e nella propria vita si può o dubitare di Dio o avere fiducia in Dio. Non c’è nessuna prova strettamente scientifica a favore di Dio, la sua esistenza non può essere fondata su argomenti logicamente convincenti. Proprio secondo Immanuel Kant: la pura ragione teoretica al di fuori di tempo e spazio non è competente. Quindi l’esistenza di Dio non può basarsi su argomenti logicamente convincenti.

Ma davvero!

Non scherzi! Lei ha certamente, da un lato, ancora in mente la sua fede di bambino, però, d’altro canto, anche la sua ragione non ha competenza nella questione della fede. L’esistenza di Dio è una questione di fiducia ragionevole.

Fiducia ragionevole? A me pare che sia piuttosto irragionevole, e penso che Mark Twain abbia ragione: “La fede consiste nel credere in qualcosa che si sa non essere vero.”

Proprio una brutta battuta di spirito. Io però le rispondo molto seriamente con una frase della lettera agli Ebrei. “La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono.” Quindi: nonostante i suoi dubbi ci sono mille motivi per cui una persona – nonostante tutte le contrarietà della vita – può credere in Dio.

Me ne dica uno.

Su questo ho proprio appena scritto un intero libro: “Quello in cui credo”. La fede è innanzitutto un problema di fiducia di fondo. Fiducia nella vita. Vorrei invitarla ad ammettere Dio almeno come ipotesi. Prenda la questione filosofica fondamentale: perché una cosa esiste al posto di non essere, oppure l’inspiegabile origine delle fondamentali costanti della natura o della velocità della luce. Ma anche il problema dell’infinito in matematica, le tracce della trascendenza nella musica – tutto questo può essere un invito a credere in Dio.

Lo scienziato Richard Dawkins le risponderebbe, a queste parole che risuonano così belle…

…io direi piuttosto: parole che risuonano vere!

Lui direbbe: tutte le religioni insegnano cose senza senso e sono pericolose per l’umanità.

Non mi parli qui di questi nuovi atei! Dawkins è un ideologo che reagisce ad un’immagine di Dio superata e argomenta in modi estremamente polemici, senza tuttavia portare nuove conoscenze. È uno studioso di scienze naturali, senza apertura a problemi filosofici. Io mi sono occupato dei grandi atei classici, ho analizzato Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud. Loro costituiscono per me una sfida, non questo…

“La religione, dice Marx, è il sollievo della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore, lo spirito di situazioni senza spirito. È l’oppio del popolo. L’abolizione della religione in quanto illusoria felicità del popolo è la condizione necessaria per la sua vera felicità: la condizione necessaria per rinunciare alle illusioni della sua situazione, la condizione necessaria per rinunciare ad una situazione che ha bisogno di illusioni.”

Marx ha ragione: la religione può essere l’oppio del popolo. La religione può essere un mezzo di acquietamento e consolazione sociale. Ma non deve esserlo. Le analisi di Marx esprimono, forse contro la sua volontà, anche qualcosa di positivo, e cioè che la religione può essere molto di più – una protesta contro le condizioni che abbiamo, protesta contro le circostanze a causa delle quali soffriamo.

Questa è un’interpretazione arrischiata. “La critica della religione”, dice ancora Marx, è in nuce la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola

Religione solo riverbero? In questo Marx – come già Feuerbach – fa un cortocircuito. La religione è più di una proiezione. Come la fede, la speranza e l’amore, essa non si esaurisce solo nel fatto di far sopportare la miseria agli uomini in maniera cosciente o in maniera rassegnata! No, la religione può essere un motivo eccezionalmente forte, come disse Marx, non solo per interpretare il mondo in modo diverso, ma per cambiarlo.

Mio Dio, ma che mondo è mai quello che ha creato il suo Dio. Mentre noi stiamo qui a parlare crescono senza sosta le montagne di cadaveri. Ogni cinque secondi muore un bambino al di sotto dei dieci anni di fame o di sete. Stiamo parlando da trenta minuti scarsi – 360 bambini morti!

Perché Dio non ha impedito il male? Già il filosofo greco Epicuro rivolge nel 300 avanti Cristo questa domanda contro la religione. Ma forse dovremmo prima chiederci: perché gli uomini non hanno impedito il male? Rispetto al male, ogni persona che crede in un Dio buono e vivo è confrontato in questo mondo ad un mistero che…

Lei lo chiama mistero il far morire di fame dei bambini?

No. Il mistero è perché Dio non ha impedito il male. Il dolore immeritato di bambini non può essere giustificato con nessuna argomentazione. “Perché soffro? Questa è la roccia dell’ateismo” viene detto nella tragedia di Büchner “La morte di Danton”. Sì, perché soffriamo? Questa è la domanda originale dell’uomo. Lei, Signor Luik, sa dare una risposta?

Lei, Signor Küng, lei è il cristiano credente. Io aspetto con ansia la sua risposta.

Che non è facile. Appartiene al mistero anche il perché gli uomini non facciano di più contro ildolore. Ad ogni modo non possiamo attribuire tutta la colpa a Dio. L’umanità proprio nel “progredito” XX secolo ha sperimentato il male in una misura fino ad allora sconosciuta: stragi di stato, Auschwitz, l’industrializzazione del massacro. Come ha potuto Dio permettere questo? Il mistero della sofferenza non può essere spiegato con i mezzi della ragione.

Troppo facile.

Né attraverso la psicologia, né attraverso la filosofia né attraverso la morale il buio della sofferenza si lascia trasformare in luce. Dio rimane l’incomprensibile.

Signor Küng, al di là delle parole difficili: il suo Dio era ad Auschwitz?

Parole difficili? Dell’orrore dell’olocausto, Dio non è responsabile. Certamente, se Dio esiste – e io ci credo -, allora Dio era anche ad Auschwitz.

Ma che Dio è, che sta ad Auschwitz e non impedisce Auschwitz!

Questo è un grido di protesta che io capisco. Ed è mia convinzione che anche con ardite speculazioni su un Dio che soffre, la mostruosa realtà di Auschwitz non può essere liquidata. Qui si addice una teologia del silenzio. Ma perfino ad Auschwitz era possibile la fede: credenti di religioni diverse hanno rivolto a Dio la loro preghiera perfino nella fabbrica della morte, perché erano convinti che, nonostante tutto, Dio esistesse. E lei, da parte sua, deve chiedersi: il suo ateismo spiega l’olocausto? La sua mancanza di fede spiega il mondo, riesce a consolare chi è nella sofferenza senza senso? No! Nessuno dei grandi spiriti dell’umanità che io ho letto ha risolto il problema originale della sofferenza e del male.

Ma neanche il cristianesimo, che – è quasi assurdo – parla del Dio buono, benevolo,

indulgente. Un Dio che tutto sa, che tutto guida.

Questa è una rappresentazione medioevale del Dio onnipotente, che guida tutti gli eventi cosmici.

Allora ho studiato male la religione!

No, Dio è spirito, che agisce dentro, con e in mezzo agli uomini, ma che rispetta la loro libertà. E questa libertà comprende inevitabilmente anche il male. L’uomo che soffre non può giungere al segreto dei progetti del creatore sul mondo. La sofferenza, enorme, insensata – tanto individuale che collettiva – non può essere capita in teoria, ma nel migliore dei casi superata praticamente. Gli ebrei – anche i cristiani – come estrema sofferenza hanno la figura di Giobbe davanti agli occhi. Quest’uomo perde, senza alcuna colpa, tutto: il patrimonio, la famiglia, la salute, diventa mendicante, viene colpito dalla lebbra. Si lamenta con Dio e rifiuta tutti gli argomenti a favore di Dio. Con questo mostra che l’uomo non necessariamente deve accogliere la sofferenza. Ha il diritto di insorgere, di protestare, di ribellarsi contro un Dio che gli appare crudele, perfido e scaltro – e attraverso queste prove Giobbe ritrova Dio!

La prego, questa è una favola.

Questa è letteratura mondiale altamente drammatica. Ma più ancora di Giobbe, per me comecristiano è Gesù, quel Gesù che viene abbandonato, flagellato, che viene schernito, che muore lentamente sulla croce, colui che ha anticipato la terribile esperienza dell’olocausto.

Per lei come cristiano questa morte è certamente una morte salvifica, che…

… che rinvia oltre la miseria, il dolore, la morte! Perfino per degli scettici come il marxistaHorkheimer era insopportabile credere che la miseria avesse l’ultima parola. Deve esserci una ultima giustizia proprio per i poveri, i miseri di questo mondo! E i bambini che soffrono senza colpa, possono avere il conforto che questa vita non è tutto, ma che hanno davanti a sé una vita senza dolore.

Lo dice lei stesso: la fede è oppio.

No, non è oppio, è conforto.

Lei ha ora più di 80 anni e…

… sono cosciente del fatto che la mia fine terrena è vicina. Prima pensavo – la mia è stata una vita faticosa – che non sarei arrivato ai 50 anni. Ora faccio i conti con la morte, ogni ora può essere l’ultima. Chi ogni giorno ha la morte davanti agli occhi, ne ha meno paura. Sono pronto. Ho vissuto sette vite. Non mi permetto alcuna nostalgia di vecchiaia, non mi attacco spasmodicamente al voler essere giovane. A volte mi chiedono: “Come vorrebbe morire?” Sorridendo rispondo: “Durante un viaggio di lavoro!” Ed ora aggiungo: “Ad ogni modo non in una casa di cura.”

Il suo amico, il professore di retorica Walter Jens, è sprofondato in un mondo al di là del pensiero, al di là delle parole, è demente. È stato un difensore dell’aiuto attivo a morire, sua moglie Inge dice: “Non ha colto il momento giusto in cui avrebbe potuto passare dalla vita alla morte.”

Per me la vita è un dono di Dio, di cui sono responsabile. E questo fino all’ultimo respiro. È rimessa alla mia responsabilità e non a quella della Chiesa o del papa o di un prete, di un medico, di un giudice. È mia responsabilità e in definitiva sono responsabile della più alta istanza: Dio. Dico solo che non vorrei mancare il momento giusto.

Che cosa si aspetta alla fine della vita?

Come ho detto, sono curioso. La morte è per tutti una prima. Ho la fondata fiducia di non sprofondare nel nulla. “Questo è tutto?”, Kurt Tucholsky, che si è tolto la vita nel 1935, ha scritto: “Se dovessi morire adesso, direi: ‘Questo è tutto?’ – e: ‘Non avevo capito proprio bene.” E: “È stato un po’ rumoroso.” Ma no, non la penso così! Non è tutto. Io credo alla vita eterna.

Walter Jens mi diceva una volta che avrebbe incontrato volentieri Heinrich Böll e Willy

Brandt lassù.

Naturalmente anch’io incontrerei molto volentieri determinate persone. Preferirei ad ogni modo Mozart a Brandt, e mi piacerebbe conoscere Tommaso Moro. Ma che ne so? Le fantasie non hanno nulla a che fare con la serietà del morire.

E che cosa dirà a Dio, nel caso ci fosse, quando le chiederà: “Che cosa hai fatto per rendere il mondo migliore?”

So che non mi farà questa domanda, perché lo sa anche senza chiederlo.

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