IL NICHILISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

IL NICHILISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

Intervista di Emilio Carnevali a Roberta De Monticelli

Dalle parole della sua lettera traspare il grande travaglio intellettuale ed emotivo che ha accompagnato la maturazione di questa decisione. Perché proprio ora ha deciso di dare l’addio alla Chiesa cattolica? Sono anni che la Chiesa va ripetendo le posizioni che lei ha appena citato, anche in relazione alla “fine della vita”. Episodi come il rifiuto di concedere i funerali religiosi a Piergiorgio Welby sono stati molto più eclatanti nel rivelare una totale mancanza di pietas cristiana da parte delle gerarchie ecclesastiche. Perché, dunque, proprio ora?

Quella lettera è breve, ma non è la prima. E sono proprio questi anni che lei menziona quelli che hanno finito per averla vinta sulla speranza che il divino possa “abitare un’istituzione terrena senza perdersi”. Mi permetto di riprodurre qualche passo di Sullo spirito e l’ideologia: una vera e propria Lettera ai cristiani, che uscì nell’inverno del caso Welby.

“Mi accorgo che il tema di questa lettera è da capo a fondo quello dell’ideologia, e comincio forse a sentire la radice della pena che mi spinge a scrivere: l’ideologia mi è apparsa come l’antitesi dello spirito, e insieme come la sua contraffazione diabolica, e il dubbio mi ha presa che questa contraffazione diabolica minacci dall’interno ogni fede che si fa istituzione terrena. Per questo è soprattutto a voi che scrivo, amici che più di me sapete cosa sia ‘spirito’, dato che è un nome di Dio. Perché spero che mi liberiate da quel dubbio – che altri, forse i più, danno per scontata certezza, al punto che ‘chiesa’ ha assunto nel linguaggio comune anche il senso di ‘setta’ o ‘partito’. Ma io ancora dubito, dubito soltanto. E mi aggiro per questo Paese, e non posso fare a meno di stupirmi per la bellezza delle sue innumerevoli chiese, per l’incanto dei suoi monasteri, per la povera, affamata fatica dei suoi cercatori di spirito, per lo splendore delle loro antiche biblioteche, per la luce di alcune delle loro parole – delle vostre, amici. E penso che di molti mali è stato chiesto perdono, che di alcuni ancora forse non si ha chiara coscienza… Ma di questo? Come tacere di questo, che è così pervasivo e sinuoso, così inafferrabile e cangiante: l’ideologia? E come parlarne, con un po’ di chiarezza, e onestamente?”

Lungi dal liberarmi da quel dubbio, e pur restando intatta la mia gratitudine per tutti quelli che, fuori e dentro la Chiesa, hanno trovato non infondate le mie domande, la maggior parte delle risposte che ho ricevuto mi ci hanno ricacciata in pieno. Non tanto per le stroncature, che pure ci sono state, quanto perché in troppe quasi-risposte mi si mostrava, lo dico con grande tristezza, il volto bifido dell’ipocrisia, paradossalmente di un’ipocrisia che non sa più di esserlo, che forse è in buona fede – ma questo è anche peggio, perché è come se l’integrità della coscienza fosse incrinata dalla sudditanza del cuore (che è cosa toto genere diversa dall’obbedienza al vero). E poi il dolciastro della melassa solidaristica, a condire il rifiuto di onorare la solitudine della coscienza personale, e la confusa dialettica della relazione a offuscare la negazione della responsabilità ultima che ciascuno porta di se stesso.

Ecco un esempio. Ero rimasta esterrefatta, in occasione del caso Welby, di leggere o udire sulla bocca dei politici frasi di questo genere: “La legge deve garantire la libertà di scegliere la vita, e non di scegliere la morte” (la frase è stata pronunciata da Rosy Bindi, che pure è una persona di grande onestà e buona volontà, nel corso della trasmissione “Otto e mezzo” seguita alla morte di Welby).

Ma come si fa a “scegliere” la vita, se la morte non è un’opzione? È un uso del verbo “scegliere” che lo svuota di senso. Ma poi ho dovuto constatare che perfino da parte di filosofi, sia pure cattolici – intendo dire di persone per le quali la logica dovrebbe essere, ancora più che per tutti noi, l’etica del pensiero – venissero uscite di questo genere: “La persona… non è libera di disporre di sé e degli altri, ma è libera di prendersi cura di sé e degli altri, in nome di quel Dio che abita dentro la coscienza…”. È un esempio recentissimo, da una lettera su Avvenire, direttamente rivoltami (Paola Ricci Sindoni, 5/10/08). Ma come si fa a essere liberi di prendersi cura di sé e degli altri, se il non farlo non è un’opzione? E chi ha detto che chiedere per sé o per altri una morte dignitosa non sia “prendersi cura”, ma sia “disporre della vita”, propria o altrui? E come è possibile dare per ovvio che “disporre di sé” sia identico a “disporre per altri”, quando appunto questo era il punto in questione? Un controsenso logico e due assunzioni infondate in una sola frase: in una lettera dove si dice di avermi ascoltata. Quando appunto le questioni che avevo posto (e da anni) sono nascoste e uccise sotto quelle tre fallacie (chiedo perdono di questa franchezza, cara Paola che mi chiedi di ascoltarti a mia volta: ma è proprio questa mistura di richiamo affettivo e di indifferenza logica che, per il mio modo di sentire, inquina il cuore, la cui purezza non prescinde, anzi si nutre, dell’amore di evidenza e di esattezza).

Tutto questo alimentava una delusione crescente e inaspettata. Inaspettata (nonostante il facile sarcasmo di quelli, a me prossimi, che non avevano mai sperato) per me che mi ero letteralmente innamorata della bellezza e della bontà di alcuni veri testimoni del divino, anche dentro questa Chiesa. E non per tradizione familiare, ma per gratitudine nei loro confronti, oltre che per il deposito di sapienza che i secoli cristiani hanno accumulato, sostavo volentieri sulla soglia delle chiese, e in qualche modo nutrivo una speranza di liberarmi di quel dubbio. La delusione è stata tanto più cocente quanto più cresceva intorno a noi l’uso sfacciatamente ideologico e politico del nome di Dio. Né ora né mai, certo, cesserò di amare gli uomini e le donne veramente divini – nella loro semplice, del tutto ignota umanità – che ho incontrato, e a cui debbo il pochissimo di luce di cui ancora vivo. Ma se prima ne dubitavo, ora ne sono certa: santi e veri sapienti ce ne sono ben pochi, ma ce ne sono dappertutto, perfino dentro le chiese, e purtroppo non le riscattano. E perché dovrebbero, del resto? Loro sono infinitamente oltre, sono vicini al vivo – che è quanto di più lontano ci sia dalle battaglie: se le sono già tutte lasciate alle spalle. So bene, del resto, che anche con queste parole, con questo nuovo intervento, io vengo inevitabilmente (mi scuso della brutta parola) “usata” da una parte, per averne respinto un’altra. Nonostante il mio motivo unico fosse lo spavento per quei paraocchi del cuore e della mente che sono le ideologie, e nonostante che della parola “cattolico” io non abbia amato il suono, ma il senso etimologico, il senso antico. Potevo scrivere mille lettere, o non farlo: era lo stesso. Ma il nostro non è solo il Paese dei guelfi e dei ghibellini, è anche un Paese dall’anima teatrale. Efficaci – almeno per un’ora, sulla piazza – sono solo le rappresentazioni e i gesti, non i pensieri e gli argomenti. E così è stato anche della mia piccola vicenda.

 

Nell’articolo pubblicato sul Corriere Vito Mancuso, dopo averle dato completamente ragione nella “disputa” con mons. Betori, chiude con parole di ottimismo: “Ho fiducia nello Spirito: come la Chiesa è giunta ad accettare la libertà di coscienza sulla dottrina, così giungerà ad accettare la libertà del soggetto rispetto alla propria (alla propria, non a quella altrui!) vita biologica”. Si sente di condividere questo ottimismo (almeno nel lungo periodo) o la sua scelta di dire “addio” è maturata anche in virtù della perdita irreversibile di “fiducia nello Spirito”?

Lo Spirito – il vivo, la brezza che soffia dove vuole, e non sai donde venga né dove vada – io credo non sia qualcosa in cui si possa cessare di aver fiducia – senza morire (dentro). Ma credo anche che non abbia senso pensare che questo vento soffi altrove che nell’anima delle persone: è ciò che ci ravviva, che ci dà sollievo, che ci rallegra, che spalanca e approfondisce i nostri orizzonti valoriali, intensificando indefinitamente la nostra percezione di ciò che è prezioso e di ciò che è fragile, e la nostra attenzione al reale e al vero. Ma se è così, allora non si può separare la fiducia nello Spirito dall’intimo rinnovarsi di un consenso, e di una prontezza a operare, dove e come lo si sente soffiare.

Vito Mancuso sente che questa Chiesa diventerà migliore, in quanto sente di poter operare nel suo seno perché migliore diventi: e io glielo auguro vivissimamente, e spero che sorga, anche in base al suo esempio, una nuova generazione di teologi e uomini di spirito che davvero raccolga la migliore eredità del cattolicesimo, e rigetti la peggiore. Me lo lasci dire in modo figurato: tutti noi, almeno una volta nella vita, ci fermiamo a considerare i nomi che avevamo dato a Dio. Nessuno di quei nomi, ci insegnano coloro che sono veramente andati a fondo – i mistici – , può corrispondergli veramente. Ma quei nomi corrispondono forse a quel tanto di buono che noi possiamo realizzare in terra, e chi fa attenzione sa che in fondo non è in suo potere “scegliere” quei nomi, dato che sul loro sfondo e nel loro senso fa ogni vera scelta. Così, non è davvero più in mio potere associare al nome di “Chiesa cattolica” una qualche speranza di bene, e di bene che io possa contribuire a fare.

Di più: ho sentito, in seguito all’ormai irrefrenabile dilagare, nel nostro Paese, dell’uso ideologico e politico del nome di Dio, che non era più possibile far spallucce al dubbio che alcuni mi avevano insinuato: “Ma non sarai anche tu una di quelli che a parole, o in privato, dissentono, ma poi alla fine con la loro stessa opera finiscono, magari inconsapevolmente, per giustificare l’ingiustificabile?”. No, non era più possibile tollerare l’equivoco. E certamente non era facile scioglierlo: un filosofo e amico, Paolo Spinicci, mi scrive: “Non riesco a leggere nelle parole del signor Betori molto più che una delle voci che rendono la Chiesa quella strana cosa che è – un coacervo di contraddizioni, di istanze nobili e di meschinità, di autoritarismo immorale e di grande generosità umana”. E conclude: le voci peggiori debbono essere contrastate, “ed è forse per questo che non capisco di preciso che cosa voglia dire chiudere ogni collaborazione con chi ‘abbia una diretta o indiretta relazione alla Chiesa cattolica italiana’”. Ha forse ragione: e della Chiesa fanno parte non solo molti uomini e donne da cui avremmo tutto da imparare, ma anche figure come quella di Carlo Maria Martini, che ognuno di noi è grato di avere incontrato, o uomini di grandissima cultura e intelligenza, biblisti come Gianfranco Ravasi o Paolo De Benedetti, e anche sacerdoti come Abramo Levi e Angelo Casati, e monaci come Camillo de Piaz e Davide Turoldo, o gli amici delle comunità di Bose, di Camaldoli, di Fonte Avellana, di riviste intellettuali e spirituali come “Esodo” o “Servitium” – e chiedo scusa ai molti altri di cui non faccio il nome, per i quali tutti io continuo a nutrire una profonda, perfino timida ammirazione, pur continuando a chiedermi perché mai la loro voce non si senta di più, anche nelle materie del contendere. Ha ragione, Spinicci: ma non ha forse vissuto il dubbio che gravi sopra di sé, nonostante tutto, un sospetto di complicità, o almeno di non assoluto, radicale dissenso, rispetto a quell’autoritarismo immorale ma inzuccherato d’amorosa indulgenza e avvolto nei sofismi che è oggi il volto dominante – purtroppo – del cattolicesimo italiano. La differenza è la filosofia, che non è una disciplina accademica ma un modo di vivere e pensare, e in questo senso una vocazione oltre che un mestiere: ed è quel modo di vivere e pensare appunto che non può né sul breve né sul lungo periodo allignare nell’abbraccio “di un coacervo di contraddizioni”.

Per concludere, dunque, su quest’ultima domanda: il mio addio resta tale, in tutti i sensi del termine, compreso quello etimologico. Come tale resta la mia ammirazione per i santi (non sono certamente tutti quelli del calendario!), quelli morti e i viventi d’oggi, che sono nella Chiesa (e per quelli che ne sono fuori). Ci sono veramente molte e diverse strade che puntano forse, e se non ci illudiamo troppo, verso quell’irraggiungibile ultima, sempre nuova e sempre nascente vita del nostro vivere che chiamiamo lo Spirito, o il divino: e la via che porta di fatto il nome di “cattolica” non è la mia, per infinitamente irrilevante che questo sia, su questa terra e in cielo.